Sostenuto dal Mibac e dagli altri soci e concordato con ADI e Assolombarda, la Fondazione Triennale inaugura il Museo del Design Italiano per la prima volta in un allestimento permanente.
“Design” potrebbe azzardare qualcuno, è dove la funzione incontra la convenienza, la praticità e la forma.
Comunque un azzardo, perché “Design”, nell’accezione che ci interessa, è una parola intraducibile. Tutti sanno cosa vuol dire, ma il suo significato pochi sono in grado di definirlo, non dico esattamente, ma neppure vagamente.
Ce lo fa notare Mario Bellini, grande vecchio della comunità di architetti milanesi e componente del comitato scientifico della Triennale, che riunisce alcune delle figure di rilievo del mondo del design e dell’architettura italiani e non solo: oltre al già citato Bellini, Paola Antonelli, Andrea Branzi, Antonio Citterio, Michele De Lucchi, Piero Lissoni, Claudio Luti, Fabio Novembre, Patricia Urquiola.
Perché “design” significa “disegno”, lo sappiamo, e, in questo caso, più precisamente, nella sua valenza di “progetto”. Ma neppure “progetto” restituisce il significato preciso che la parola “design” evoca, non solo nelle menti più sofisticate, ma anche nel cervello della “casalinga di Voghera” o in quello di quasi tutte le persone che normalmente si incontrano in un supermercato di provincia – per dire – che quando sfogliano il catalogo della collezione punti, scelgono l’oggetto “di design”.
Design, quindi, definisce una qualità che si ritiene assente in quegli oggetti che “di design” non sono, assolvendo in maniera anonima, direi quasi amorfa, alla propria funzione.
Tutti sappiamo la differenza tra una forchetta normale e una forchetta “di design”, quando rimiriamo con sorpresa, oserei dire, con ammirazione, e la soppesiamo, la posata che abbiamo trovato al nostro posto a tavola, al matrimonio della cugina. Arrivati al dolce, dato che i cucchiai della collezione buona sono esauriti ce ne accorgiamo subito, nonostante i fumi, quando il manufatto che portiamo alla bocca risulta a sensazione essere troppo largo e/o troppo profondo, troppo leggero… insomma, non all’altezza del tiramisù.
Una volta, fino alla fine della II Guerra mondiale, per stupire gli ospiti, la posata sarebbe stata d’argento, fatta da un abile artigiano argentiere, mentre oggi è molto più probabilmente d’acciaio, prodotta in serie da un’industria siderurgica specializzata nella produzione di posateria e pentolame, che, per distinguersi da una pletora di concorrenti che sfornano più o meno la stessa cosa, per la progettazione dei suoi articoli si è avvalsa della collaborazione di uno studio di architettettura.
E qui arriviamo all’oggetto di questo articolo, ricordando il titolo della 10. Triennale del 1958, in cui i curatori, Achille e Piergiacomo Castiglioni, per la prima volta utilizzano il termine “Industrial Design”, battezzando a livello internazionale quello che, di lì a poco, sarebbe stato considerato un indiscutibile talento e un primato del nostro paese.
Dietro la definizione, si nascondeva allora un fenomeno d’avanguardia, costituito da un movimento sperimentale, guidato, sì, dal designer, ma che non avrebbe potuto aver alcun esito se non avesse trovato terreno fertile nell’imprenditore e nell’artigiano, ma soprattutto, in una classe media che, dopo le miserie della guerra, si trovava a vivere un nuovo benessere, ansiosa di costruire uno scenario nuovo in cui ambientare la propria rinascita.
«Il design – afferma Stefano Boeri, presidente della Fondazione Triennale – non è mai un processo univoco e unidirezionale, ma sempre un’incessante conversazione tra la dimensione economico-produttiva delle aziende, la dimensione visionaria – di architetti, designer e progettisti – e la dimensione del desiderio e delle necessità da parte della comunità, che definisce e plasma i bisogni che il design è chiamato, in qualche modo, ad anticipare.»
Oggi, sotto la Direzione Artistica di Joseph Grima, assistiamo finalmente – dopo una lunghissima gestazione e in una forma che promette di essere stabile – all’inaugurazione del Museo del Design Italiano.
Si tratta di una prima tappa che espone duecento su 1600 pezzi appartenenti alla collezione permanente del museo.
Organizzata cronologicamente, dal 1946 al 1981, la selezione presenta uno dei periodi di più grande influenza del design e dei designer italiani nel mondo: quello intercorso tra gli anni dell’immediato dopoguerra e del miracolo economico successivo fino ai primi anni ottanta, quando l’arrivo sulla scena di nuove esuberanti correnti – come Memphis – diede avvio, in Italia e nel mondo, a una nuova era nella produzione del design.
Nella “curva” al piano terra del Palazzo dell’Arte, su una superficie di circa 1.300 mq, il museo invita i visitatori ad attraversare il periodo in esame coadiuvati da una timeline che comprende eventi storici, fatti di cronaca, release cinematografiche, innovazioni tecnologiche che hanno accompagnato il lancio degli oggetti esposti.
Molti oggetti sono inoltre accompagnati dai prototipi in legno realizzati da Giovanni Sacchi – concessi in deposito a Triennale da Regione Lombardia – che sottolineano la cura nella progettazione che ne ha preceduto il lancio, unitamente a pagine pubblicitarie, cataloghi, listini prezzi…
Il museo si propone di essere tre cose: il luogo che ospita una comunità; vuole essere un centro di ricerca e si prepara a rappresentare anche un’attrazione turistica per la città.
«È probabile che “design” sia diventato il nome dello stile dei nostri tempi – afferma l’architetto Mario Bellini, protagonista indiscusso del fenomeno – ed è abbastanza divertente che qualcosa che è nato dalla lotta e dal rifiuto degli stili abbia finito col diventare, com’è giusto che sia, uno stile in se stesso. Perché ogni tempo della storia è rappresentato dalle sue architetture, dai suoi arredi, dai suoi interni e il “design” è lo stile che definisce il nostro… Viva il museo del Design, dunque, che è anche lui “di design”, che chiude questo corto circuito che ci porta ad avere quello che tutti si aspettano che Milano abbia».
Segue questa inaugurazione il lancio di un concorso internazionale di architettura che interessa l’area sotterranea del giardino,– c.ca 6000 mq – che permetterà di esporre la collezione nella sua totalità e sviluppare aree destinate ai servizi per il pubblico, oltre a una riorganizzazione degli Archivi.